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In presenza di quantitivi che eccedano sensibilmente i limiti tabellari sanciti dalla L. 49/2006 si deve, sempre, ritenere che – al di là del persistente dovere dell'accusa di dimostrare la propria tesi, non potendosi il P.M. avvalere di mere presunzioni di punibilità per giungere alla condanna dell'imputato – sia compito anche dell'imputato quello di fornire al giudice elementi di valutazione atti a provare la compatibilità del quantitativo (ancorchè rilevante) con la destinazione a propri fini esclusivamente personali.

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Ciò non significa affatto, anche alla luce di una recente sentenza del Tribunale di Milano del 26 Maggio u.s., (la quale riafferma il dovere dell'accusa di dimostrare la finalizzazione dello stupefacente alla cessione in favore di terzi, anche in ipotesi di quantitativi non modesti) che l'accusa possa in qualche modo recuperare a proprio favore la tanto vituperata presunzione di colpevolezza, che si è sostenuta sussistere, in modo assolutamente decisivo, nel caso in cui il profilo ponderale dello stupefacente apparisse di problematica compatibilità con l'uso personale.

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In questo specifico caso, che ben attiene all'ipotesi risolta con la sentenza del Tribunale di Nola, quindi, “ lo stato di tossicodipendenza dell'imputato e la dimostrata assunzione abituale di stupefacente del tipo hashish come emerge dalla documentazione acquisita al fascicolo (attestato di iscrizione al SER.T ed esami tossicologici dai quali si evince la presenza nel sangue e nelle urine esclusivamente di cannabinoidi a riprova dell'assunzione prevalentemente di hashish) ” possono fungere da elementi che provano, al di là di ogni ragionevole dubbio che sia verosimile che l'acquisto di droga avvenga per il proprio fabbisogno ed uso personale.

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Allo stesso modo può assumere rilievo importante anche la disponibilità continuativa di danaro da parte dell'indagato/imputato, ove tale condizione economica sia conceguenza diretta di un'attività lavorativa lecita, oppure sia dimostrata la percezione di rendite finanziarie, che, pur non derivando da impegni lavorativi a carattere autonomo o dipendente, siano congruamente testate in ordine alla liceità della loro causale.

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Il nuovo regime dell'art. 671 c.p.p in materia di reati commessi dal tossicodipendente, a seguito delle modifiche introdotte al t.u. 309/90 dalla L. 49 DEL 2006 La L. 49 del 21 Febbraio 2006, che ha innovato il T.U. sulle sostanze stupefacenti, inizia a fornire, nel corso della sua applicazione, primi spunti giurisprudenziali di meditata riflessione.

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E' il caso della sentenza che si annota, la quale che affronta, con lucida argomentazione espositiva, l'annoso problema del riconoscimento, in sede esecutiva, del vincolo della continuazione fra sentenze di condanna pronunziate nei confronti di persona tossicodipendente, la quale abbia delinquito in costanza ed a cagione della propria conclamata situazione personale.

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In pratica la prospettiva che ci viene proposta non è solo quella – peraltro maggiormente comune – di omogeneità di violazioni di legge, tutte incentrate sul T.U. 309/90, ma abbraccia, qualsiasi delitto che l'agente, in virtù del proprio stato di tossicomania, abbia commesso. Va, infatti, rammentato al lettore che il codice di procedura penale del 1988, ha introdotto all'art. 671, la possibilità di dare corso, anche in sede esecutiva, all'applicazione del regime della continuazione di reato.

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La norma, sotto la rubrica “ Applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato ” recita, infatti, testualmente:

Nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato [c.p. 81] , sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione.

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Fra gli elementi che incidono sull'applicazione della disciplina del reato continuato vi è la consumazione di più reati in relazione allo stato di tossicodipendenza 1.